L'anello mancante tra Van Gogh e Cobain
L'anello mancante tra Van Gogh e Kurt Cobain si chiama Daniel Johnston
Di Matteo Franza
A Roma, al Piper, a sentire Daniel Johnston. E a questo punto le opzioni sono 3. La prima: non avete nessuna idea a riguardo. La seconda: quello che in ‘Hipsteria’ ascoltano i Cani alle quattro del mattino. La terza: il cantante californiano, bipolare, e con sindrome maniaco depressiva, che canta senza saper cantare. Ecco, la terza è quella giusta.
Questa è la storia di uno che un critico americano ha definito il Van Gogh della musica. Ma non parliamo di grandezza o abilità, quanto di cose come la bipolarità mentale, l'ansia religiosa, la solitudine, la vitalità mescolata a un forte impulso autodistruttivo, ma anche la lucida coscienza artistica.
Daniel Johnston è un cult, questo è il suo fascino, e questa è la sua dannazione. A dimostrarlo, l'omaggio dei suoi colleghi più celebri, che gli hanno dedicato nel 2005 un disco-tributo, Discovered Cover, in cui rendono omaggio alle sue canzoni senza eguagliarle. Fra gli appassionati: Kurt Cobain, i Sonic Youth, i Rem,Beck, Tom Waits, i Pearl Jam, David Bowie, Matt Groening, Steven Spielberg.
Lou Reed avrebbe voluto suonare con Daniel. Peccato che il giorno previsto per il concerto, Johnston finì in prigione per aver scritto sulla Statua della Libertà frasi contro Satana.«Tutti mi vogliono vedere vicino a lui. Ma con il diavolo non si gioca, perché bara», ha raccontato il Daniel in un'intervista, alludendo anche al documentario «The devil and Daniel Johnston» che ritrae l'artista e i tormenti (diagnosticati come schizofrenia e sindrome maniaco-depressiva) che l'hanno portato a essere internato in un ospedale psichiatrico.
Ma facciamo un po’ d’ordine.
Nato a Sacramento (California), fu la musica dei Beatles a cambiargli la vita, voleva essere come loro. Il fatto che non sapesse cantare, che avesse una voce sgraziata non rappresentò un problema. La sua risposta fu ‘chi se ne frega’.
A vent’anni registra con un pianoforte e un mangianastri il suo primo album ‘Songs of pain’, nato per fare sfogo ad un trauma affettivo: Laurie, la ragazza di cui era innamorato, sposa un imprenditore. Questo provoca un crollo nervoso tremendo per Daniel, che in quest’album mostra già quelli che saranno i tratti distintivi della sua musica: melodie orecchiabili e trasognate, e testi crudi, in cui affronta i suoi ‘demoni’ con una sincerità spietata che quasi ti mette a disagio.
Si riprende dalla depressione e inizia a lavorare come venditore di pop-corn in un luna park itinerante.
In seguito si iscrive ad un istituto d’arte a Austin, e continua a registrare nel suo garage, non ci pensa nemmeno a vendere la sua musica. La regala agli amici, alla gente che conosce, e così, in poco tempo diventa un vero e proprio riferimento della scena musicale, tanto che un’apparizione in uno speciale di Mtv gli dona visibilità e attira le attenzioni di gente come i Sonic Youth. Continua poi a incidere album in cui amori impossibili, citazioni bibliche e la paura della morte sono affrontate di volta in volta con rassegnazione, ironia o distacco. Gli anni ‘90 partono benissimo, i suoi lavori iniziano ad attirare l’interesse delle etichette discografiche, e uno del calibro di Kurt Cobain inizia ad esibirsi indossando una maglietta con Jeremiah la rana che chiedeva: «Hi, How Are You?» (cioè il titolo di un album di Daniel, che però, vivendo in un mondo tutto suo, nemmeno sapeva chi fosse Kurt Cobain). Ma invece della gloria inizia uno dei periodi peggiori della sua vita, la depressione se lo mangia e durante una crisi si rompe un braccio.
Così torna a vivere dai genitori, e agli inizi del 2000 si riprende, torna a comporre regolarmente, disegna, va in tour e collabora con gente del calibro degli Sparklehorse e Jason Falkner.
Ora possiamo raccontarvi il Daniel che abbiamo visto al concerto: un cinquantenne ciccione, brutto, sgraziato, che si mangia le parole, che fa sempre gli stessi accordi e a cui tremano le mani mentre stringe il microfono. Insomma, un vero e proprio amore.
Nella prima parte del live Daniel ha cantato da solo con il suo ukulele, nella seconda invece si è fatto accompagnare da una band creata ad hoc per la data romana, con Niccolo de I Cani al basso e Marcello dei The Jacqueries alla tastiera, aggiungeteci due chitarristi (bravi ma alle volte un po’ eccessivi) e un batterista che non siamo riusciti a decifrare, e il live è fatto, le emozioni e la pelle d’oca servita.
L’atmosfera era a dir poco surreale, poco pubblico, ma iperpreparato e animato da una sorta di fanatismo musicale a cantare tutte le canzoni, a ridere delle sue battute (tipo “Ciao a tutti e buon Natale”) e a tenere il ritmo con le mani.
Era l’unica data italiana, pubblicizzata pochissimo e anche abbastanza costosa (20 €), ma se vi abbiamo fatto venire voglia di conoscere meglio questo pazzo potete scaricare l’app coi suoi disegni qui, andarvi a vedere il documentario “The devil and Daniel Johnston”, oppure guardare un Van Gogh.